giovedì 11 giugno 2015

Bullismo: l’errore è pensare di meritarlo


Di Salome Sodini e Silvia Carrus

In Toscana abbiamo una parola bellissima per descrivere chi viene infastidito dalle minime cose, prova piacere nel potersi lamentare di tutto e preferibilmente gira anche con le lacrime in tasca: fioso. In virtù dell’essere io una bambina estremamente fiosa e viziata, secondo la maggior parte delle maestre che ho avuto, ero altresì convinta di meritarmi tutti i dispetti che mi facevano tutti i miei compagni di classe. Ne facevo anch’io, talvolta, perché in fin dei conti ero pur sempre una bambina di sette anni, ma sopportavo, senza che mi passasse per l’anticamera del cervello la possibilità di potermi difendere o reagire in qualche modo.

Non era questione di non saperlo fare, era proprio che non mi veniva in mente questa possibilità: confusamente capivo che ero fiosa e viziata, essere fiosi e viziati è male, essere presi in giro perché si è fiosi e viziati è una conseguenza naturale. In quanto bambina fiosa e viziata sentivo di avere però il diritto di piangere e lamentarmi della mia triste sorte con chiunque mi capitasse a tiro, dopotutto era quello che gli altri – le maestre, i miei amichetti, perfino i miei genitori – si aspettavano che facessi, alimentando un circolo vizioso che potenzialmente poteva durare per sempre.

A onor del vero, non ci sono mai state tragedie: la cosa più brutta che mi è capitata è stata quando un bambino, in quinta elementare, mi ha sputato nei capelli; la cosa più stupida che sono stata costretta a fare è stata saltare dal tetto di un capanno degli attrezzi alta un paio di metri, ai tempi delle scuole medie.

Se però dico che sono stata vittima di bullismo la gente si aspetta le tragedie che salgono agli onori della cronaca ogni tre per due, dalle baby-gang che picchiano un compagno per rubargli i soldi, alla ragazzina ripresa col cellulare e svergognata pubblicamente per ogni dove, passando per chi viene picchiato in quanto colpevole di parlare con accento straniero, di provare interesse per il genere sbagliato, o semplicemente di indossare vestiti non appropriati.

Forse anche in virtù dell’essere stata una bambina fiosa e viziata, forse perché da grande vorrei lavorare nell’ambito dell’educazione, leggo sempre con grande interesse e tanto dispiacere le notizie di questo tipo, chiedendomi ogni volta perché è successo, si poteva evitare, come mai non se ne è accorto qualcuno prima. Da quando ho iniziato a fare ripetizioni e a vedere quindi cosa succede a scuola da un altro punto di vista ho scoperto di essere piuttosto brava a riconoscere eventuali segnali preoccupanti, ma alla fine dell’ora mi assale comunque un senso di impotenza terribile: so cosa succede, più o meno, ma non posso fare niente per impedire che accada. Qual è il limite per intervenire se nessuno ti chiede direttamente aiuto?
Gli psicologi definiscono il bullismo come un tipo di condotta aggressiva, basato su uno squilibrio di potere tra vittima e prepotente; convenzionalmente, si parla di bullismo quando l’atto è intenzionale e ripetuto nel tempo. Generalmente, si tende a distinguere il bullismo diretto(fisico o verbale che sia) da quello indiretto (il gruppo manipola le strutture sociali per escludere la vittima, a dare fastidio è più il non fatto che il fatto). È interessante notare che alle femmine viene attribuito quasi sempre il bullismo indiretto: quando ce ne parlavamo a scuola, veniva quasi sempre fuori che eravamo più subdole e cattive, e incapaci di dirci le cose in faccia come facevano i maschi, che si tirano due pugni e poi amici come prima. Stereotipi di genere come se piovesse, insomma.
Per quella che è stata la mia esperienza durante le scuole elementari e medie, credo che il più grosso errore sia soltanto concentrarsi sul bambino che subisce bullismo. Quando andavo alle scuole medie ogni anno abbiamo avuto un progetto diverso sul bullismo, ogni anno ne abbiamo parlato e sviscerato le cause e ci siamo chiesti se qualcuno di noi aveva subito niente di tutto questo, o se riconosceva comportamenti aggressivi negli altri: la risposta è sempre stata no.
Tacevo io, anche se Tizio e Caio mi davano noia, taceva Sempronio, che era considerato stupido ritardato e veniva aggredito regolarmente da tutti quanti noi, tacevano gli altri. Questa cosa non mi riguarda, chiedere aiuto è vergogna, chi fa la spia non è figlio di Maria! Al momento delle domande io disegnavo con il lapis sul banco e aspettavo la fine dell’ora.
La mia amica Soraya dice che io mi preoccupo troppo, quando le racconto di uno dei bambini che aiuto a fare i compiti e che ho il sospetto venga perseguitato a scuola: libri strappati e pieni di parolacce scritti in una scrittura non sua, che mi strappa di mano non appena vede che cerco di leggere cosa gli hanno scritto. Soraya dice che impicciarsi nelle cose dei ragazzini è sbagliato, che sono come i gattini che imparano a cacciare facendo la lotta e in fin dei conti alla vittima va bene così, altrimenti si ribellerebbe.
Delle sue affermazioni, condivido forse in parte soltanto l’ultima, perché ricordo che sì, io pensavo di meritarmi tutto ciò e anche di peggio, però mi chiedevo anche perché l’unica a essere chiamata in casa dai genitori – quando mio padre vedeva che i bambini in piazza esageravano – ero io, che in fin dei conti non avevo fatto nulla di male. Se c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel bambino che non si difende, perché non vuole e/o non ci riesce, altrettanto c’è nel bambino che per affermare se stesso ha bisogno di fare del male agli altri.
Mi piacerebbe raccontarvi di come io sono riuscita a spezzare il cerchio e a uscire dalle dinamiche del bullismo, ma la verità è che non lo so. Credo che a un certo punto si diventa grandi, nella migliore delle ipotesi ci si circonda di persone diverse, persone che ci piacciono e che ci apprezzano per quello che siamo, nella peggiore le dinamiche del bullismo si trasformano in qualcos’altro – mobbing o nepotismo, per esempio.
Sicuramente, restano le cicatrici; se da una parte quello che non uccide rende più forti, dall’altra io mi guardo indietro e mi chiedo se questa sofferenza, anche quando non finisce in tragedia, sia davvero motivata. Ognuno deve salvarsi da solo, ma lasciare un ragazzino in balia del gruppo (vittima o carnefice che sia) non è una cosa sensata; forse sono un’ingenua senza speranza, ma credo che presi singolarmente anche i bulli non siano cattivi.
I bulli sbagliano soltanto il modo di relazionarsi con gli altri, proprio come le loro vittime, ripetendo spesso a pappagallo comportamenti sbagliati del mondo degli adulti. Per questo dico che i progetti di bullismo fatti a scuola molto spesso sono inutili: nella mia esperienza parlare al gruppo, che è forte e compatto e non ha coscienza, non serve. È alla persona singola, per quanto possa essere piccola e superficiale, che devi rivolgerti.
Il mio punto di non ritorno è stato il capanno degli attrezzi. Era l’estate della quinta elementare e ricordo come costante di quel periodo il fatto che giocassimo sempre a Obbligo e Verità. Mi ero ritrovata ad essere l’unica femmina in un gruppo di maschi, e forse anche per questo (oltre ad essere viziata e fiosa, come sopra) venivo presa costantemente di mira. Quell’anno erano tutti convinti che avessi una cotta per Z., il bambino con cui giocavo più spesso, e ricordo che si inventavano per me gli Obblighi più pesanti che riuscivano a trovare soltanto per farmi cedere, scegliere Verità e obbligarmi a dichiarare davanti a loro il mio amore incondizionato per Z.
Tralasciando che non mi ero mai posta il problema di avere o meno una cotta per Z., qualcosa mi diceva che sarei stata costretta ad ammetterla lo stesso, Z. avrebbe quindi ribattuto dicendo che gli facevo schifo (che lo pensasse davvero o meno) e non sarei più potuta andare a casa sua a giocare a Tomb Raider: davanti a un simile panorama, accettavo di buon grado di essere piuttosto obbligata a mangiare le foglie della siepe, a urlare dal balcone e a camminare in equilibrio sui muretti.
Il giorno del punto di non ritorno, però, evidentemente il resto del gruppo cercò di farmi cedere alla Verità, facendo proporre a Y un obbligo discretamente folle: saltare dal tetto del capanno degli attrezzi. Per quanto a dieci anni non avessi particolarmente senso del pericolo, lo capivo pure da sola che saltare da un paio di metri non era la migliore idea di sempre e lì esitai. Se non salti non hai fatto l’Obbligo e devi fare Verità, io non volevo assolutamente fare Verità, quindi ritenni meno tragico chiudere gli occhi, lasciarmi cadere di sotto e finire sull’erba.
Mi rialzai subito in piedi, come se non credessi nemmeno io di non avere nulla di rotto: tremavo. Senza dire una parola, me ne andai via, pensando confusamente di aver vinto in qualche modo e non tornai mai più a giocare a Obbligo e Verità. Credo di aver iniziato a capire in quel momento che, pur essendo una bambina fiosa e viziata, comunque non meritavo ciò e non ero obbligata a subirlo. E la consapevolezza è sempre il primo passo.

L'adolescenza,secondo il parere del celebre psicoanalista Giacomo Contri, è un'età che non esiste e che è stata "inventata" di recente

Un grande psicoanalista contro un luogo comune: un'invenzione moderna. Una stagione di passaggio che nella storia gli uomini non hanno mai conosciuto. Intervista a Giacomo Contri. Di Luca Ribolini


L'adolescenza è una non età. Per Giacomo Contri, psicoanalista, allievo e traduttore di Jacques Lacan, a capo di una scuola che a Milano aggrega un gruppo affiattatissimo di studiosi e di operatori, è tranchant. Di questa affermazione che scuote decenni di pensiero pedagogico va assolutamente certo. Anni di riflessione e di pratica lo hanno portato a sistematizzare con grande chiarezza un'idea destinata a far discutere e a far pensare chi opera nel sociale. 63 anni, un fisico che mette soggezione, Contri è stato un protagonista attivo della vita culturale milanese sin dagli anni 70, quando invece della perfetta calvizie di oggi aveva i capelli lunghi e ribelli. Tra quegli anni ed oggi ci sono tanti libri e tanti incontri importanti, primo tra tutti quello con don Luigi Giussani, altro grande esperto di gioventù e di umanità. Vita: Che cos'è l'adolescenza? Giacomo Contri: è un'invenzione dei nostri tempi. Nel passato i ragazzi a 14/15 anni entravano già in un?età adulta, erano pronti per il lavoro e per il matrimonio, senza distinzione di classe sociali. Si iniziava a lavorare presto se si era poveri, cioè proletari nel senso letterale della parola. Ma si diventava cardinali anche a 12 se si apparteneva all'aristocrazia. L'adolescenza, concepita come età di passaggio, come un periodo di parcheggio in attesa di decidere che cosa fare della propria vita, non esisteva affatto. non si era mai in un'epoca falsa di belle speranze. Oggi invece non solo è stato aperto un varco a questa età, ma la si è dilatata a dismisura. Siamo adolescenti ad libitum Vita: Ma non esiste un'adolescenza per così dire biologica. L'età del passaggio, quella della maturazione? Contri: Non è che all'epoca dei miei bisnonni i ragazzi non vivessero la pubertà. Ma la pubertà non era una terra di nessuno, una stagione di parcheggio, una specie di sala di attesa dell?esistenza. Invece è con il secolo scorso che è stata attestata l?esistenza di questa stagione della vita, creando attorno a lei anche dottrine e teorie. Sino a farla diventare materia di una disciplina scientifica. Ma, per dirla fuori dai denti, la psicologia dell'età evolutiva per me non ha niente di scientifico. Vita: Perché? Contri: Appunto perché elude questo dato basilare: sino a qualche decennio fa nessuno si era accorto dell?esistenza dell'adoloscenza. Mi devono spiegare com'è possibile che in secoli di storia l'uomo non abbia notato un qualcosa che oggi si dà per assolutamente scontato. Vita: Ci possono essere ragioni demografiche. Oggi la vita si è allungata. E anche le età si sono dilatate? Contri: Un conto sono le età che si dilatano. E un altro è inventare un'età che non esisteva.

FONTE E ARTICOLO COMPLETO:http://www.vita.it/it/article/2006/08/20/ladolescenza-leta-che-non-esiste/57263/

Psicologia politica: come distrarre la massa dai veri problemi

Di Barbara Collevecchio
Miss Italia,  Calderoli?  insulti, boutade, interminabili botta e risposta e indignazioni on line? Temi importanti o abili strategie mediatiche e politiche per  distrarre l’attenzione?
Le tecniche di manipolazione psicologica sociale hanno dei padri fondatori e lunga storia.Gustave Le Bon etnologo e psicologo (fu uno dei fondatori della “Psicologia sociale”) fu il primo a studiare scientificamente il comportamento delle folle, cercando di identificarne i caratteri peculiari e proponendo tecniche adatte per guidarle e controllarle. Per questa ragione le sue opere vennero lette e attentamente studiate dai dittatori totalitari del novecento, i quali basarono il proprio potere sulla capacità di controllare e manipolare le masse. Tema centrale di Le Bon è : “Nell’anima collettiva, le attitudini intellettuali degli uomini, e di conseguenza le loro individualità, si annullano. L’eterogeneo si dissolve nell’omogeneo e i caratteri inconsci predominano”.
Dopo Le Bon un guru della propaganda fu Bernays, nipote di Freud: inizialmente, Bernays studiò l’opera di Gustave Le Bon, “Psicologia delle folle”, pubblicata nel 1895. Opera di riferimento per molti uomini politici, fu meticolosamenete studiata anche da Lenin, Stalin, Hitler, e Mussolini. La relazione con Freud era costantemente al centro del suo pensiero e del suo lavoro di consulente. Nella sostanza, la sua convinzione era che una manipolazione consapevole e intelligente delle opinioni e delle abitudini delle masse, svolge un ruolo importante in una società democratica. Nasceva così il concetto – caro appunto alla propaganda in chiave politica – secondo cui chi è in grado di padroneggiare questo dispositivo sociale può costituire un potere invisibile capace di dirigere una nazione:
«Coloro che hanno in mano questo meccanismo [...] costituiscono [...] il vero potere esecutivo del paese. Noi siamo dominati, la nostra mente plasmata, i nostri gusti formati, le nostre idee suggerite, da gente di cui non abbiamo mai sentito parlare. [...] Sono loro che manovrano i fili…».
Nel 1933 Joseph Goebbels rivelò a un giornalista americano che lo stava intervistando, come il libro Crystallizing Public Opinion che Bernays aveva pubblicato nel 1923 fosse stato utilizzato per le campagne politiche dei nazional-socialisti. 
Noam Chomsky ha elaborato la lista delle 10 strategie della manipolazione attraverso i mass media. Tra queste spicca la numero uno: La strategia della distrazione. “L’elemento primordiale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel deviare l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dei cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche, attraverso la tecnica del diluvio o inondazioni di continue distrazioni e di informazioni insignificanti.”
La strategia della distrazione è anche indispensabile per impedire al pubblico d’interessarsi alle conoscenze essenziali. Mantenere l’attenzione del pubblico deviata dai veri problemi sociali, imprigionata da temi senza vera importanza.

mercoledì 10 giugno 2015

La semplicità interiore



Di Jiddu Krishnamurti

Vorrei prendere in esame che cos'è la semplicità e, partendo da lì, arrivare magari alla scoperta della sensibilità. Noi sembriamo credere che la semplicità sia un'espressione puramente esteriore, una rinuncia: possedere pochi beni, indossare un perizoma, non avere casa, non fare sfoggio di abiti, avere un piccolo conto in banca. Certamente, questa non è la semplicità, ma soltanto una messinscena esteriore. A me pare che la semplicità sia qualcosa di essenziale, che però si realizza soltanto quando cominciamo a comprendere il significato dell'autoconoscenza. La semplicità non è il mero adeguamento a uno schema. E' necessaria una notevole intelligenza per essere semplici, e non soltanto conformarsi a un determinato modello, per quanto possa sembrare degno. Purtroppo la maggior parte di noi inizia con l'essere semplice esternamente, nelle cose visibili. E' relativamente facile possedere poche cose ed esserne soddisfatti; accontentarsi di poco e, magari, dividere quel poco con altri. Ma, una semplice manifestazione esteriore di semplicità nelle cose, in ciò che si possiede, non implica certo la semplicità dell'essere interiore. Per come va il mondo oggigiorno, infatti, siamo indotti dall'esterno ad appropriarci di un numero sempre crescente di cose. La vita diventa sempre più complessa. Allo scopo di sfuggire a tutto ciò, cerchiamo di rinunciare alle cose, di distaccarcene - dalle automobili, dalle case, dalle organizzazioni, dai film, e dalle innumerevoli circostanze che dall'esterno ci vengono imposte. Pensiamo che basti ritirarsi dal mondo per essere semplici. Molti grandi santi, molti grandi maestri hanno rinunciato al mondo; ma, mi sembra che una simile rinuncia da parte nostra non risolva il problema. La semplicità, che è essenziale e reale, può nascere solo interiormente; e, a partire da lì, può poi dare luogo a una manifestazione esterna. Il problema è, dunque, come essere semplici, perché la semplicità acuisce la sensibilità. E' fondamentale avere una mente sensibile, un cuore sensibile, che siano capaci di una percezione e ricezione rapida. E certo si può essere semplici interiormente solo se si comprendono gli innumerevoli impedimenti, legami, paure, che ci imprigionano. Ma alla maggior parte di noi piace essere prigionieri - delle persone, degli oggetti, delle idee. Dentro di noi siamo prigionieri, anche se esteriormente sembriamo molto semplici. Internamente siamo prigionieri dei nostri desideri, bisogni, ideali, di innumerevoli motivazioni. E' impossibile trovare la semplicità se non si è liberi dentro. E' per questo che bisogna cominciare la ricerca internamente, non esternamente. La comprensione totale del processo della credenza, dei motivi che spingono la mente ad aggrapparsi a una credenza, è straordinariamente liberatoria. Quando c'è libertà dalle credenze, c'è semplicità. Ma, questa semplicità richiede intelligenza, e per essere intelligenti bisogna essere consapevoli dei propri impedimenti. Per essere consapevoli, bisogna essere costantemente vigili, non radicarsi in una particolare routine, in un particolare schema di pensiero o di azione. Dopo tutto, ciò che si è internamente influenza il mondo esterno. La società (o qualunque forma di azione) è la proiezione di noi stessi, e senza trasformazione interiore, le sole leggi incidono assai poco sul mondo esterno; possono produrre certe riforme, certi adeguamenti, ma ciò che si è internamente finisce sempre per prevalere sull'esterno. Se internamente si è avidi e ambiziosi, se si perseguono certi ideali, alla fine la complessità interiore turberà e sconvolgerà la società esterna, per quanto questa possa essere attentamente pianificata. Ecco, perché bisogna cominciare dall'interno - ma non in maniera esclusiva, non rifiutando il mondo esterno. Si arriva all'interno comprendendo l'esterno, scoprendo la sofferenza, la lotta, il dolore che esistono nel mondo; e più si indaga, più, naturalmente, ci si avvicina agli stati psicologici che producono i conflitti e le sofferenze esteriori. L'espressione esterna è soltanto un'indicazione del nostro stato interiore, ma per comprendere tale stato interiore bisogna accostarsi ad esso attraverso il mondo esterno. La maggior parte di noi fa così. Nel comprendere l'interiorità - non esclusivamente, non rifiutando la realtà esterna, ma comprendendola e attraverso essa giungendo all'interiorità - scopriremo che, mentre procediamo nell'esplorazione delle complessità del nostro essere, diventiamo sempre più sensibili e liberi. E'questa semplicità interiore che è così essenziale, poiché genera sensibilità.

FONTE E ARTICOLO COMPLETO:http://www.pomodorozen.com/?p=7004

Simbolismo della Foresta

Immagine
Di Eleonora De Simoni
La  foresta, spesso identificata con il bosco,  costituisce lo scenario ideale per l ‘ esperienza iniziatica e la strettamente connessa rappresentazione fiabesca: è un luogo simbolico fortemente seducente e primigeno, contrapposto alla nostra terra edificata, coltivata e controllata, uno spazio in cui le nostre regole, subalterne a quelle ‘‘caotiche,, della natura spontanea, perdono improvvisamente ogni valore.

La foresta è uno spazio intriso di contraddizioni: al contempo attrae ed inquieta, nutre e priva, conforta e minaccia,  offre scorci di intimo raccoglimento e disorienta con l‘ idea della sua sterminata estensione. Essa, così come la terra, possiede caratteristiche creative, metamorfiche e cicliche tipicamente femminili: il suo ventre oscuro inghiotte carcasse, miceti, sterco, fogliame putrefatto e vecchi ceppi metabolizzandoli in umido e fecondo humus; un‘ infinità di invisibili spore e minuscoli semi vi si posano ansiosi di germogliare,  i più adatti attecchiscono e penetrano con le loro radici  le profondità della terra traendone forza e nutrimento per  ergere, come piccoli Yggdrasil,  il  fiero tronco e il ventaglio dei rami al cielo.

Nella foresta la psicoanalisi individua l‘ area legata alla sfera inconscia e all' archetipo dell' ombra:  un luogo precluso alla luce solare, costellato di allegorie e  simboli iniziatici, teatro ideale delle fasi  indispensabili all‘ individuazione:  smarrimento,  vagabondaggio,  ricerca,  incontro, ritrovamento,  ritorno a casa.

 ‘‘La foresta, come simbolo onirico, è ricca di molti elementi di natura anche contraddittoria, innocenti o minacciosi: vi si raccoglie cioè che forse un tempo potrà affiorare ai livelli consci della nostra esistenza civilizzata,, Ernst AeppliLa foresta è un elemento ricorrente nella nostra cultura letteraria ufficiale, oltre che  popolare: In una selva oscura Dante inizia il suo viaggio attraverso regni ultraterreni; attraversando la foresta Polífilo compirà il viaggio iniziatico verso l‘ amore platonico; nell‘ isolamento del  bosco, mistici, eremiti ed asceti trovano il luogo ideale per accedere a stati superiori di coscienza;  attraversando scenari silvestri disseminati di tranelli e pericoli, i protagonisti delle fiabe e gli eroi della letteratura cavallersca medievale superano le difficili prove che li condurranno all‘affermazione personale, sessuale e sociale.La foresta è stata per millenni teatro della nostra evoluzione. Scegliendo di attraversarla avremmo avuto la possibilità di  conoscere nuovi sentieri, trovare nuovo nutrimento per noi e i nostri figli, raccogliere legna per scaldarci, cuocere il cibo, fondere il metallo, costruire la nostra casa, i nostri suppellettili e le nostre armi. Ma inoltrarsi nel bosco implicava, ed implica,  inevitabilmente la possibilità di smarrirsi, di essere attaccati, di ferirsi, avvelenarsi, di non essere uditi o soccorsi in caso di bisogno: la foresta ha il potere di distruggere le nostre velleità di controllo mettendo in luce tutta la nostra vulnerabilità.  Il bosco seleziona gli individui più forti e/o intelligenti inghiottendo, senza possibilità di appello,  tutti gli altri, rendendoli così immediatamente utilial ciclo biologico.

Il folklore e la nostra risposta fantastica di fronte ai prodigi fenomenici naturali, hanno da sempre popolato la foresta di  fantastiche entità duali, ibride tra uomo e fiera, tra razionale e selvaggio, tra sensibile e incomprensibile: divinità paniche, gnomi, elfi, fate, troll,  streghe, nix, orsi e lupi parlanti: esseri in grado di possedere e controllare  i poteri propri della natura: metamorfosimoltiplicazione,distruzione. Personaggi ora benevoli e seducenti pronti a mettere alla prova e premiare la nostra moralità, ora ostili e spaventosi, suscitanti terror pánico  personificazioni ‘‘ di componenti primitive pericolose del nostro essere, poiché, la nostra natura, come si sa, non è esclusivamente positiva,, (E. Aeppli) 

L'archetipo del Puer Aeternus come base psichica dei cambiamenti individuali e sociali moderni

Graffito Banksy, http://joohnchoe.com

Di Mario Morena

 Per capire il significato dell'emergenza dell'archetipo del puer aeternus nella nostra cultura, sarà opportuno dapprima considerare il significato della sua attivazione nell'inconscio del singolo individuo. Per potere fare ciò dobbiamo riferirci ad uno schema dello sviluppo psicologico in cui inserire il fenomeno. Come sappiamo, Jung non formulò mai una teoria sistematica dello sviluppo psicologico. Questo compito fu intrapreso da Neumann, che si basò sulla geniale intuizione del rapporto esistente tra immagini archetipiche e fasi di sviluppo della coscienza dell'Io, sia nella storia dell'umanità che nel singolo individuo. In un suo recente saggio Edinger ha esposto in sintesi le fasi descritte da Neumann: uroborica, matriarcale, patriarcale e integrativa, sottolineando che: « queste fasi sono, per cosi dire, stazioni successive alle quali ritorniamo sempre di nuovo nel corso di un viaggio a spirale che ci riporta varie volte sullo stesso percorso, ma ogni volta ad un diverso livello di consapevolezza conscia». Nella fase che Edinger chiama integrativa, è necessario un nuovo cambiamento per recuperare gli elementi psichici esclusi dalla fase patriarcale precedente, unilaterale ed incompleta. Seguendo Edinger l'archetipo dominante in questa fase è quello indicato come archetipo della trasformazione. Il tema della nascita dell'eroe o puer aeternus, egli dice, appartiene a questo archetipo: « quest'immagine esprime l'emergere di un nuovo contenuto dinamico nella personalità che preannunzia un cambiamento decisivo ed un allargamento della coscienza » . Possiamo dire, perciò, che l'attivazione dell'archetipo del puer aeternus in un'esistenza individuale, in relazione agli eventi della storia personale e alle influenze culturali, corrisponde alla esigenza del passaggio da una fase patriarcale ad una integrativa. Il puer tende a determinare un nuovo atteggiamento dell'Io, di rinuncia alla sicurezza offerta dagli schemi patriarcali convenzionali e di esposizione all'inconscio, ai pericoli di una regressione e ai legami matriarcali, con la intenzione di recuperare elementi perduti ma necessari, in quanto la loro scoperta rappresenta un passo decisivo verso l'integrazione psicologica e la conciliazione degli opposti. Nei « Prolegomeni » Jung disse che « il motivo del fanciullo rappresenta l'aspetto " infanzia " precosciente dell'anima collettiva ». La sua emergenza è perciò condizionata dal fatto che prima c'era stata una » dissociazione » tra lo stato del presente e lo stato del passato: « per esempio, le condizioni presenti sono venute in contrasto con le condizioni dell'infanzia. Ci si è forse staccati violentemente dal proprio carattere originario, per adottare una « persona » corrispondente all'ambizione. Con ciò si è diventati « an-infantili » e artificiosi e si sono perdute le proprie radici ». L'archetipo del puer perciò ha una funzione compensatrice: « la coscienza differenziata è continuamente minacciata dallo sradicamento e, per conseguenza, ha bisogno di una compensazione per mezzo dello stato d'infanzia ancora reperibile ». Un altro aspetto essenziale dell'archetipo ricordato da Jung è il suo carattere di avvenire: « il fanciullo è un avvenire in potenza. Perciò il presentarsi del motivo nella psicologia dell'individuo significa normalmente un'anticipazione di sviluppi futuri, anche quando al primo momento sembra trattarsi di una formazione retrospettiva... Perciò non è sorprendente se i redentori mitici sono così spesso dei fanciulli. Ciò risponde perfettamente alle esperienze della psicologia individuale, esperienze che mostrano come il " bambino " prepari un prossimo cambiamento della personalità. Esso anticipa nel processo di individuazione quella forma che deve prodursi dalla sintesi degli elementi coscienti ed incoscienti della personalità. Esso è dunque un simbolo unificatore dei contrasti, un mediatore, un redentore, vale a dire un integratore ». Sulla base di queste indicazioni di Jung a proposito dell'archetipo del puer, in cui possiamo cogliere positivamente un momento psicologico di rinnovamento radicale, di rinascita spirituale, di trasformazione del cosmo psichico, possiamo spostare la nostra attenzione sul piano culturale, per chiederci se ci sono veramente condizioni che favoriscano oggi l'attivazione dell'archetipo e se la precisa analogia tra la fenomenologia di questo archetipo e quella della ribellione studentesca possa essere interpretata come una conseguenza dell'emergere dell'archetipo del puer nella nostra cultura. Jung in un certo senso ha già risposto affermativamente alla prima domanda scrivendo a proposito dell'archetipo del puer: « forse abbiamo ragione di estendere l'analogia individuale anche alla vita dell'umanità e cosi arriveremo al risultato che probabilmente l'umanità incorre sempre in contraddizioni con le proprie condizioni d'infanzia, vale a dire con il suo stato originario, incosciente ed istintivo ed è minacciato dal pericolo inerente a una simile contraddizione che è, del resto, condizione della visione del puer ». E ancora più esplicitamente dicendo che « la situazione di conflitto dalla quale il fanciullo emerge come tertium irrazionale, è naturalmente una formula adeguata a una determinata fase di evoluzione psicologica, vale a dire a quella moderna ». In altre parole il carattere patriarcale della nostra cultura, e la sua attuale crisi, rappresentano le premesse essenziali per l'attivazione dell'archetipo. Gli elementi che determinano il carattere patriarcale della nostra cultura sono cosi numerosi ed ovvi che forse non è necessario soffermarsi a lungo su questo argomento. Sul piano filosofico dominano l'empirismo ed il razionalismo; la scienza meccanicistica e deterministica promuove uno sviluppo tecnologico alienante; persiste sul piano etico una morale autoritaria e repressiva basata sul senso di colpa; su quello sociale vi è un'economia capitalista e competitiva o un socialismo che nega alcune delle sue premesse teoriche; sul piano psicologico predomina l'individualismo basato sulla volontà di potenza. Nella sua « Realtà dell'anima » Jung ha sottolineato che nella nostra cultura c'è uno sviluppo unilaterale del conscio ed una contemporanea progressiva perdita di contatto con l'inconscio. Egli ha scritto: « lo smarrimento della coscienza del mondo moderno proviene in primo luogo dalla perdita dell'istinto e ha il suo fondamento nell'evoluzione dello spirito umano nell'era testé trascorsa. A mano a mano che l'uomo prendeva possesso della natura, si ubriacava d'ammirazione per la propria scienza e il proprio potere, e sempre più profondo si faceva in lui il disprezzo per ciò che è puramente naturale e casuale, compresa la psiche oggettiva, che, appunto, non è la coscienza ». Gli elementi indicativi di una crisi dei valori e degli atteggiamenti patriarcali sono anche numerosi ed evidenti e contribuiscono nel loro insieme alla disintegrazione del canone culturale attuale.

FONTE E ARTICOLO COMPLETO:Rivista di Psicologia Analitica-Il fondamento archetipico della protesta giovanile come fenomeno culturale e individuale, pg 5-8

http://www.rivistapsicologianalitica.it/v2/PDF/3-1-1972-Successo_e_fallimento_nellanalisi/3-1-1972_cap3.pdf

I Numeri come Archetipi dell'Inconscio Collettivo



Jung affermava che il numero è la più primitiva espressione dello spirito, intendendo come spirito l’aspetto dinamico dell’inconscio. Nella sua conferenza del 1919 egli usa per la prima volta il temine “Archetipo, (da Archè, principio, origine, e typos, forma, ma anche immagine). Dice Jung: “oltre alla nostra coscienza immediata, che è di natura del tutto personale, esiste un secondo sistema psichico di natura collettiva, universale e impersonale, che è identico in tutti gli individui. Quest’inconscio collettivo non si sviluppa individualmente ma è ereditato. Esso consiste in forme preesistenti, gli Archetipi, che possono diventare coscienti solo in un secondo momento e danno una forma determinata a certi contenuti psichici”. Gli Archetipi, queste raffigurazioni collettive dell’incoscio, essendo ereditate, sono un patrimonio comune dell’umanità e si ritrovano nei miti e nelle leggende di tutti i popoli. Gli dei e le divinità dei pantheon stanno da sempre dietro le quinte del teatro del mondo e si manifestano come personalità che agiscono nei sogni e nelle fantasie. Nella vita ci possono essere tanti Archetipi, quante situazioni caratteristiche e li ritroviamo nei modelli tipici e riconoscibili del comportamento umano. Essendo gli Archetipi situati in zone profonde dell’inconscio collettivo, influenzano il comportamento dell’uomo senza che egli ne sia consapevole. Questo potenziale genetico archetipico col quale ognuno di noi viene al mondo, detemina il patrimonio di talenti e di capacità innate che ciascuno di noi possiede. L’Archetipo come modello universale Tutti gli dei sono modelli potenziali nella vita dell’uomo, tuttavia alcuni sono attivi e potenziati, altri no. Jung ricorse all’analogia della formazione dei cristalli per spiegare la differenza tra i modelli archetipici (universali) e gli Archetipi che sono attivati in noi. L’Archetipo è come un modello invisibile che determina quale struttura assumerà un cristallo nel formarsi. Una volta che il cristallo si sarà formato concretamente, il modello è analogo ad un Archetipo attivato. Gli Archetipi possono essere anche paragonati ai semi, la cui crescita dipende dal terreno e dalle condizioni climatiche. Gli Archetipi sono modelli fondamentali, alcuni dei quali per natura, sono più forti in certe persone che in altre.

 Fonte: www.kabbalah.it

Jim Carrey e la legge di attrazione

Jim Carrey 2
Di Roberto Re
Dicono che dai tempi di Jerry Lewis non si vedesse un comico così, capace di far sbellicare la gente dalle risate senza neanche dire una parola, ma semplicemente usando la sua incredibile mimica facciale.
è uno degli attori più amati e stimati di Hollywood, oltre che uno dei più pagati, con dei cachet di oltre venti milioni di dollari a film.
“I fallimenti mi hanno insegnato che non esiste fallimento finché continui a provare”, ha affermato un giorno e la sua è certamente la storia di un uomo che partendo dal livello più basso che si possa immaginare è arrivato all’apice del successo, grazie a un atteggiamento mentale straordinario e alla sua capacità di concentrare tutte le sue energie sul suo obiettivo, che sin da giovanissimo, era quello di diventare un comico famoso, un attore.
Passava le ore davanti allo specchio esercitandosi a utilizzare i muscoli del viso per creare le espressioni più strane, buffe ed esagerate, abilità che anni dopo si rivelerà per lui un’arma vincente.

Jim Carrey 1
Adorava far ridere le altre persone e donar loro alcuni momenti di felicità. A scuola la maestra strinse un patto con lui: ogni qual volta si fosse comportato bene, durante la lezione avrebbe avuto a disposizione gli ultimi cinque minuti per esibirsi davanti ai compagni, e regolarmente le lezioni finivano con le risate provocate dalle sue straordinarie imitazioni. Riusciva a strappare un sorriso a chiunque, anche in famiglia, dove la situazione non era particolarmente rosea (arrivarono perfino a dormire in quattro in un pullmino prima e in una tenda da campeggio poi). Le difficoltà economiche della sua famiglia, costrinsero Jim ad abbandonare la scuola prima del diploma per lavorare come custode in una fabbrica, dove uno dei suoi compiti principali era pulire i gabinetti.
Crescendo si trasferì a Los Angeles per inseguire il suo sogno, facendo la gavetta nel settore cinematografico. La strada sempre in salita per lui e le continue difficoltà lo portarono spesso a vivere periodi di tremenda frustrazione. Anche nei momenti più duri, però, Jim non smetteva di focalizzarsi sui propri obiettivi. Li aveva scritti e se li ripeteva a voce alta, ogni giorno, dedicando poi alcuni minuti a visualizzarli nitidamente, nei dettagli, vivendo in anticipo le sensazioni che da lì a breve avrebbe realmente vissuto. Il suo posto favorito per fare questo erano le colline di Los Angeles, dove la sera si recava tutto solo: si sedeva osservando il panorama della città illuminata ai suoi piedi e semplicemente immaginava la vita che avrebbe voluto vivere, senza tornare a casa finché non avesse avuto la sensazione di sentirla fisicamente. Addirittura un giorno si autofirmò un assegno del valore di dieci milioni di dollari “per servizi resi”; lo datò e lo mise nel portafoglio, e da lì, in seguito, lo tirò fuori ogni giorno, per guardarlo intensamente e pensare con chiarezza a ciò che avrebbe realizzato.
Quattro anni dopo, in una data non molto distante da quella che aveva scritto su quell’assegno, Jim Carrey firmò un contratto del valore di dieci milioni di dollari per il suo ruolo nel film The Mask.

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