Di Salome Sodini e Silvia Carrus
In Toscana abbiamo una parola bellissima per descrivere chi viene infastidito dalle minime cose, prova piacere nel potersi lamentare di tutto e preferibilmente gira anche con le lacrime in tasca: fioso. In virtù dell’essere io una bambina estremamente fiosa e viziata, secondo la maggior parte delle maestre che ho avuto, ero altresì convinta di meritarmi tutti i dispetti che mi facevano tutti i miei compagni di classe. Ne facevo anch’io, talvolta, perché in fin dei conti ero pur sempre una bambina di sette anni, ma sopportavo, senza che mi passasse per l’anticamera del cervello la possibilità di potermi difendere o reagire in qualche modo.
Non era questione di non saperlo fare, era proprio che non mi veniva in mente questa possibilità: confusamente capivo che ero fiosa e viziata, essere fiosi e viziati è male, essere presi in giro perché si è fiosi e viziati è una conseguenza naturale. In quanto bambina fiosa e viziata sentivo di avere però il diritto di piangere e lamentarmi della mia triste sorte con chiunque mi capitasse a tiro, dopotutto era quello che gli altri – le maestre, i miei amichetti, perfino i miei genitori – si aspettavano che facessi, alimentando un circolo vizioso che potenzialmente poteva durare per sempre.
A onor del vero, non ci sono mai state tragedie: la cosa più brutta che mi è capitata è stata quando un bambino, in quinta elementare, mi ha sputato nei capelli; la cosa più stupida che sono stata costretta a fare è stata saltare dal tetto di un capanno degli attrezzi alta un paio di metri, ai tempi delle scuole medie.
Se però dico che sono stata vittima di bullismo la gente si aspetta le tragedie che salgono agli onori della cronaca ogni tre per due, dalle baby-gang che picchiano un compagno per rubargli i soldi, alla ragazzina ripresa col cellulare e svergognata pubblicamente per ogni dove, passando per chi viene picchiato in quanto colpevole di parlare con accento straniero, di provare interesse per il genere sbagliato, o semplicemente di indossare vestiti non appropriati.
Forse anche in virtù dell’essere stata una bambina fiosa e viziata, forse perché da grande vorrei lavorare nell’ambito dell’educazione, leggo sempre con grande interesse e tanto dispiacere le notizie di questo tipo, chiedendomi ogni volta perché è successo, si poteva evitare, come mai non se ne è accorto qualcuno prima. Da quando ho iniziato a fare ripetizioni e a vedere quindi cosa succede a scuola da un altro punto di vista ho scoperto di essere piuttosto brava a riconoscere eventuali segnali preoccupanti, ma alla fine dell’ora mi assale comunque un senso di impotenza terribile: so cosa succede, più o meno, ma non posso fare niente per impedire che accada. Qual è il limite per intervenire se nessuno ti chiede direttamente aiuto?
Gli psicologi definiscono il bullismo come un tipo di condotta aggressiva, basato su uno squilibrio di potere tra vittima e prepotente; convenzionalmente, si parla di bullismo quando l’atto è intenzionale e ripetuto nel tempo. Generalmente, si tende a distinguere il bullismo diretto(fisico o verbale che sia) da quello indiretto (il gruppo manipola le strutture sociali per escludere la vittima, a dare fastidio è più il non fatto che il fatto). È interessante notare che alle femmine viene attribuito quasi sempre il bullismo indiretto: quando ce ne parlavamo a scuola, veniva quasi sempre fuori che eravamo più subdole e cattive, e incapaci di dirci le cose in faccia come facevano i maschi, che si tirano due pugni e poi amici come prima. Stereotipi di genere come se piovesse, insomma.
Per quella che è stata la mia esperienza durante le scuole elementari e medie, credo che il più grosso errore sia soltanto concentrarsi sul bambino che subisce bullismo. Quando andavo alle scuole medie ogni anno abbiamo avuto un progetto diverso sul bullismo, ogni anno ne abbiamo parlato e sviscerato le cause e ci siamo chiesti se qualcuno di noi aveva subito niente di tutto questo, o se riconosceva comportamenti aggressivi negli altri: la risposta è sempre stata no.
Tacevo io, anche se Tizio e Caio mi davano noia, taceva Sempronio, che era considerato stupido ritardato e veniva aggredito regolarmente da tutti quanti noi, tacevano gli altri. Questa cosa non mi riguarda, chiedere aiuto è vergogna, chi fa la spia non è figlio di Maria! Al momento delle domande io disegnavo con il lapis sul banco e aspettavo la fine dell’ora.
La mia amica Soraya dice che io mi preoccupo troppo, quando le racconto di uno dei bambini che aiuto a fare i compiti e che ho il sospetto venga perseguitato a scuola: libri strappati e pieni di parolacce scritti in una scrittura non sua, che mi strappa di mano non appena vede che cerco di leggere cosa gli hanno scritto. Soraya dice che impicciarsi nelle cose dei ragazzini è sbagliato, che sono come i gattini che imparano a cacciare facendo la lotta e in fin dei conti alla vittima va bene così, altrimenti si ribellerebbe.
Delle sue affermazioni, condivido forse in parte soltanto l’ultima, perché ricordo che sì, io pensavo di meritarmi tutto ciò e anche di peggio, però mi chiedevo anche perché l’unica a essere chiamata in casa dai genitori – quando mio padre vedeva che i bambini in piazza esageravano – ero io, che in fin dei conti non avevo fatto nulla di male. Se c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel bambino che non si difende, perché non vuole e/o non ci riesce, altrettanto c’è nel bambino che per affermare se stesso ha bisogno di fare del male agli altri.
Mi piacerebbe raccontarvi di come io sono riuscita a spezzare il cerchio e a uscire dalle dinamiche del bullismo, ma la verità è che non lo so. Credo che a un certo punto si diventa grandi, nella migliore delle ipotesi ci si circonda di persone diverse, persone che ci piacciono e che ci apprezzano per quello che siamo, nella peggiore le dinamiche del bullismo si trasformano in qualcos’altro – mobbing o nepotismo, per esempio.
Sicuramente, restano le cicatrici; se da una parte quello che non uccide rende più forti, dall’altra io mi guardo indietro e mi chiedo se questa sofferenza, anche quando non finisce in tragedia, sia davvero motivata. Ognuno deve salvarsi da solo, ma lasciare un ragazzino in balia del gruppo (vittima o carnefice che sia) non è una cosa sensata; forse sono un’ingenua senza speranza, ma credo che presi singolarmente anche i bulli non siano cattivi.
I bulli sbagliano soltanto il modo di relazionarsi con gli altri, proprio come le loro vittime, ripetendo spesso a pappagallo comportamenti sbagliati del mondo degli adulti. Per questo dico che i progetti di bullismo fatti a scuola molto spesso sono inutili: nella mia esperienza parlare al gruppo, che è forte e compatto e non ha coscienza, non serve. È alla persona singola, per quanto possa essere piccola e superficiale, che devi rivolgerti.
Il mio punto di non ritorno è stato il capanno degli attrezzi. Era l’estate della quinta elementare e ricordo come costante di quel periodo il fatto che giocassimo sempre a Obbligo e Verità. Mi ero ritrovata ad essere l’unica femmina in un gruppo di maschi, e forse anche per questo (oltre ad essere viziata e fiosa, come sopra) venivo presa costantemente di mira. Quell’anno erano tutti convinti che avessi una cotta per Z., il bambino con cui giocavo più spesso, e ricordo che si inventavano per me gli Obblighi più pesanti che riuscivano a trovare soltanto per farmi cedere, scegliere Verità e obbligarmi a dichiarare davanti a loro il mio amore incondizionato per Z.
Tralasciando che non mi ero mai posta il problema di avere o meno una cotta per Z., qualcosa mi diceva che sarei stata costretta ad ammetterla lo stesso, Z. avrebbe quindi ribattuto dicendo che gli facevo schifo (che lo pensasse davvero o meno) e non sarei più potuta andare a casa sua a giocare a Tomb Raider: davanti a un simile panorama, accettavo di buon grado di essere piuttosto obbligata a mangiare le foglie della siepe, a urlare dal balcone e a camminare in equilibrio sui muretti.
Il giorno del punto di non ritorno, però, evidentemente il resto del gruppo cercò di farmi cedere alla Verità, facendo proporre a Y un obbligo discretamente folle: saltare dal tetto del capanno degli attrezzi. Per quanto a dieci anni non avessi particolarmente senso del pericolo, lo capivo pure da sola che saltare da un paio di metri non era la migliore idea di sempre e lì esitai. Se non salti non hai fatto l’Obbligo e devi fare Verità, io non volevo assolutamente fare Verità, quindi ritenni meno tragico chiudere gli occhi, lasciarmi cadere di sotto e finire sull’erba.
Mi rialzai subito in piedi, come se non credessi nemmeno io di non avere nulla di rotto: tremavo. Senza dire una parola, me ne andai via, pensando confusamente di aver vinto in qualche modo e non tornai mai più a giocare a Obbligo e Verità. Credo di aver iniziato a capire in quel momento che, pur essendo una bambina fiosa e viziata, comunque non meritavo ciò e non ero obbligata a subirlo. E la consapevolezza è sempre il primo passo.